sabato 7 giugno 2014

Dialetto ed Educazione linguistica "Lingua e dialetto nell'insegnamento della lingua 1"





Testo della Prof. Maria Mignosa 
 Docente di Lìngua e Letteratura italiana nella Scuola Secondaria di II° grado





1. I dialetti non sono scomparsi, stando ai dati dell’Indagine Doxa ‘82.
Questa ci consente, tra l’altro, di confrontare i dati italiani con quelli siciliani:

Dati nazionali:


  • Parlano dialetto con i familiari          46,7%
  • Parlano italiano con i familiari          29,4%
  • Parlano ital-dial con i familiari         23,9%
  • Parlano dialetto fuori sempre            23,0% — 36,1%
  • Parlano dialetto fuori spesso             13,1%
  • Parlano dial-ital fuori                       22,0%
  • Parlano italiano fuori spesso             15,2% – 41,9%
  • Parlano italiano fuori sempre            26,7%



Dati di Sicilia


  • Parlano dialetto con i familiari         73,1%
  • Parlano dialetto fuori                      35,1%
  • La semplice lettura evidenzia in maniera abbastanza eloquente la maggiore incidenza del dialetto negli usi linguistici di Sicilia, anche se in ambito colloquiale. Non si tratta di un dialetto stratificato, ma con forti interferenze dall’italiano, lingua della quale é opinabile, comunque, che i dialettofoni abbiano una certa competenza, almeno passiva.
  • Dobbiamo prendere atto quindi che la situazione linguistica del nostro paese é fortemente differenziata in relazione alle aree geografiche e ai gruppi sociali e culturali, nonostante una tendenza alla standardizzazione che si registra in questi anni.



2. Cause del regresso dei dialetti

Le cause del regresso sono molteplici. Tra queste i vasti fenomeni migratori che hanno interessato in maniera massiccia il nostro paese, soprattutto nel secondo dopoguerra, a cui fa riferimento anche il testo dei programmi.

Gli studiosi di Sociolinguistica concordano nel ritenere che questi fenomeni hanno definitivamente rotto le paratie stagne che esistevano tra le varie parlate e i registri linguistici, accrescendo il repertorio verbale della comunità linguistica italiana e determinando un plurilinguismo diffuso.

Non danno invece una lettura univoca delle cause del regresso. In attesa di ritornare sul problema più dettagliatamente quando parleremo di varietà, possiamo anticipare alcune considerazioni generali:

L’emigrazione, specie quella in direzione Nord Sud ha portato come conseguenza la italianizzazione dei dialettofoni immigrati (e degli stessi indigeni).

Ciò per almeno due ragioni, una prima di ordine psicologico. una seconda di ordine pratico:


  1.  una prima di ordine psicologico, in quanto l’adozione dell’italiano ha significato spesso promozione sociale e integrazione verso un modello di società a cui spesso l’immigrato aspira, e i cui valori ritiene superiori a quelli di origine
  2. la necessità di incontrarsi su un terreno comune.



Nella realtà culturale siciliana invece la migrazione si é esercitata in due direzioni:


  1. una migrazione interna dalle aree depresse della Sicilia verso un’area industrialmente più sviluppata, con una situazione di partenza di dialettofonia, che rappresenterebbe una varietà del dialetto locale, varietà che é possibile conservare, pur senza sottrarsi alle normali interferenze di due lingue in contatto;
  2. una migrazione in direzione Nord Sud di gruppi che si sono inseriti nella realtà culturale siciliana in una posizione di privilegio e di relativo vantaggio culturale (almeno in termini di prestigio delle rispettive culture), e comunque forti di una competenza linguistica considerata di maggior prestigio.



3. I dialetti non scompaiono: si modificano

Studi recenti sull’evoluzione linguistica del nostro paese, dietro la spinta delle forze dinamiche che hanno agito in direzione del mutamento, hanno appurato che i dialetti, piuttosto che scomparire si modificano.

La ricerca dialettologica odierna, infatti, non é in grado più di registrare usi dialettali diffusi in comunità residenti in luoghi appartati, isolati dalle grandi vie di comunicazione, estranei ai movimenti migratori, non ancora raggiunti da un’istruzione diffusa né dai mezzi di comunicazione di massa.
Questa era la condizione ideale per lo studio dei dialetti nel secolo scorso in quanto i contesti suaccennati offrivano negli usi vivi un modello conservatosi pressoché inalterato per generazioni.

Su scala nazionale oggi i dialetti sopravvivono, in posizione preminente –forse– solo nelle aree contadine o montane tagliate fuori dallo sviluppo industriale.

La crescente diffusione dell’italiano, invece, esercita una forte spinta nei confronti dei dialetti che, come dicevamo, non scompaiono, ma si modificano. Infatti restano vitali anche nelle metropoli, ma non si tratta di forme dialettali arcaiche, ma di dialetto italianizzante che prende anche il nome di koiné, nel senso che in esso prevalgono forme che cancellano o riducono le particolarità dei dialetti locali.  Koiné dialettale (o dialetto di Koiné) significa dunque il dialetto condiviso da un territorio relativamente ampio (la denominazione deriva dal greco Κοινῆ διάλεκτος = lingua comune, con cui si indica la lingua di base attica, che in epoca illuministica unificò il mondo greco, superando la frammentazione linguistica del periodo precedente).

I cambiamenti riguardano però più spesso il lessico che la morfologia e la sintassi; e in molti casi coesistono una forma arcaica e una forma italianizzante:

frummikula    /      furmika
siccia            /      seppia 
naca             /      culla
kantunera      /      angulu
kurrituri        /      korridoio
muzzuni         /     cicca
signa             /
    scimia
kustureri        /     sartu 
mukkaturi      /     fazzulettu.


Come si vede la voce moderna talora non coincide neppure con l’italiano. Infatti la parola italiana é accolta, ma con modificazioni fonetiche che l’armonizzano al tessuto dialettale. Ne deriva una rifonetizzazione  del significante italiano, che equivale grosso modo a una traduzione dialettale.

In misura minore si registrano recessioni anche a livello fonetico, soprattutto tra parlanti più giovani:  ad l'espressione "Ttrrenu ppi TTrrapani é ‘n partenzza dal binario ttrre", con forte marcatura della /t/ cacuminale, indica non solo la provenienza geografica, ma anche l’età del parlante.

Singolari sono poi i mutamenti e spesso gli slittamenti di significato per la resa dialettale di termini italiani che non hanno il corrispondente in dialetto:

Cosi:
 vicks inalante      /   vikisi lavanti
bomboniera          /   bbimboniera
tergicristallo         /   reggi cristallu
automobile           /   rotamobbuli

Nel primo esempio la parola vicks rimane, trasformandosi in vikisi per l’anaptisi di /i/ che elimina l’incontro consonantico di /k/ e /s/, come é nella resa fonetica dei dialetti meridionali.
Quanto al secondo elemento della prima locuzione, il difficile "inalare" non é stato capito ed é stato reinterpretato con il più facile "lavare". Analogo é il caso degli esempi successivi: bon bon / bimbo; tergi / reggi; auto / rota. Attraverso questa reinterpretazione il termine oscuro diventa trasparente: si tratta della cosiddetta paretimologia o etimologia popolare, un procedimento che modifica il significante, mantenendo inalterato il significato di base, e immette il termine in una nuova rete di relazione. Questo procedimento può provocare la confluenza totale di un segno su un altro di suono simile: questura > kustura (col doppio significato di questura e cucitura; stenodattilografastilografa; letterato >; allittratu ("letterato" e "ubriacone") ecc.


4. Un po’ di etimologia: Significato della parola "Dialetto"

Dialetto é voce dotta dal latino dialéctus, che deriva a sua volta dal greco διάλεκτος).
In greco il termine significò dapprima, in senso etimologico "conversazione", "colloquio", "disputa", "discussione" come il verbo διαλήγομαι dal quale deriva.

Solo più tardi lo si trova usato come sinonimo di lingua di un determinato popolo (Polibio, Diodoro Siculo).

Da questo significato l’ambito semantico si estese nell’accezione di «chiosa, voce (o locuzione) oscura, che richiede una particolare spiegazione»

Plutarco la usa nella accezione «voce, espressione locale».

Per i Greci però il termine non implicava un giudizio di valore, dal momento che la lingua letteraria di quel popolo non era costituita da una koiné unitaria, ma da cinque dialetti: attico, dorico, ionico, corinzio, eolico. Non é un caso che Gregorio Corinzio dice che gli innumerevoli parlari dei barbari non si devono chiamare διάλεκτος, ma γλῶσσαι.


A Roma il termine greco διάλεκτος aveva il significato di "parlata locale assunta a importanza letteraria" cui si accompagnava una convenzionale specializzazione dei generi, in relazione ai modelli letterari greci:

dialetto ionico    /  epica e poesia didascalica
dialetto eolico    /  lirica monodica
dialetto dorico    / lirica corale


I grammatici occidentali introducono la voce colta dialetto, entrata in seguito alla matura conoscenza umanistica delle lingue classiche per indicare una lingua esclusivamente parlata.
Leggiamo nel vocabolario di Lionardo Salviati (Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1612): « Nessuno scriverebbe mai in cotal favella (il dialetto) se non per far ridere o per ischerzo ».
Il dialetto viene chiamato con espressioni generiche: "favelle", "parlari", "idiomi", "lingue".
La considerazione lascia trasparire un’accezione spregiativa del termine dialetto, rivelando un pregiudizio di natura culturale che assegna la preminenza alla lingua scritta.

L’accezione di «idioma usato in un contesto più ristretto di quello della lingua» é presente in Antonio Maria Salvini, accademico della Crusca (1724):
« I vostri natii dialetti vi costituiscono cittadini delle vostre città; il dialetto toscano appreso da voi, ricevuto e abbracciato, vi fa cittadini d’Italia».


5. Come può definirsi un dialetto?

La nozione é stata ed é controversa per vari motivi, anche di ordine teorico (si rimanda a Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia, Vol. I, Pacini, Pisa, 1969, pp. 9-41); per i nostri scopi possiamo limitarci a indicare alcuni requisiti necessari perché un determinato idioma possa definirsi dialettale:


  • In primo luogo fra dialetto e lingua deve intercorrere un rapporto di affinità genetica: il dialetto (o i dialetti) hanno la stessa origine della lingua.
  • In secondo luogo il dialetto é meno prestigioso della lingua. Mentre il criterio dell’affinità genetica é linguistico, il requisito del prestigio é di ordine sociale, riguarda cioé il giudizio con cui la comunità sancisce la superiorità della lingua sul dialetto.
  • In terzo luogo la lingua (L) si sovrappone a una varietà di dialetti (D).



6. Un dialetto é una lingua: lo dice la storia

La restituzione del dialetto a dignità di lingua é merito, oltre che degli studi di Dialettologia (i quali hanno sempre affrontato in termini realistici il rapporto lingua-dialetti) anche degli studi di Linguistica Storica e, più recentemente, della Sociolinguistica.

In Italia il veneziano, il milanese, il romanesco, il siciliano, ecc., derivano, come il fiorentino, dal latino. Nella fase delle origini questi differenti idiomi erano sullo stesso piano: Stefano Protonotaro, Guittone D’Arezzo o Bonvesin della Riva usavano i rispettivi volgari municipali.

In epoca rinascimentale, con il prevalere della tesi classicista del Bembo sulla questione della lingua, il fiorentino fu promosso al rango di lingua e gli altri idiomi furono declassati a quello di dialetti.

Non vanno considerati dialetti dell’italiano gli idiomi delle minoranze alloglotte, romanze e non, sparse nel nostro paese.

Sgombrato il campo quindi da uno stereotipo culturale tendente a vedere nel dialetto una sottospecie della lingua dominante, non é fuori luogo ricordare che molti dei dialetti italiani sono lingue più antiche del fiorentino a cui risale la lingua italiana; molti dialetti, infatti, come lo stesso latino, fanno parte della comune famiglia indoeuropea (vedi all. n° ) alcuni sono stati introdotti nella penisola ancor prima del latino (come il celtico o il siculo); altre lingue prelatine non indoeuropee sono il ligure, l’etrusco, il retico, il piceno, il sicano, il paleosardo.

Molte delle antiche lingue presenti nell’area romanizzata avrebbero opposto una certa resistenza alla latinizzazione, come il greco in Sicilia, considerato una lingua di maggiore prestigio o il celtico in Gallia e nelle Alpi Elvetiche, sopravvissuto fino al V° secolo ed oltre. La sopravvivenza dell’osco é attestata da iscrizioni pompeiane anteriori di non molto alla catastrofe del 79 d. Ch. (Migliorini).

C’é da osservare però che i Romani unificarono linguisticamente i territori assoggettati, senza far violenza alle rispettive culture, ma solo con la forza della penetrazione economica, con l’introduzione delle scuole, con l’estensione di una legislazione unitaria.


Ben diversa é invece la situazione italiana nella quale il rapporto lingua-dialetto si pone subito in termini di cultura egemone-cultura subalterna.


7. Quando i volgari italiani diventano dialetti?

Solo quando un idioma si afferma, fino a imporsi come lingua, le altre varietà di una comunità linguistica vengono ridotte al rango di dialetti.

In Italia, dal Duecento al Quattrocento, nella scrittura si riflettono gli usi linguistici locali, attenuati, ma non annullati, grazie al modello del latino e del toscano, che coesistono nella pratica della scrittura e interferiscono con gli altri volgari; il risultato di questa mediazione, che può essere più o meno sbilanciata verso uno dei tre vertici della parlata locale, del latino e del toscano, é un volgare che non può definirsi come dialettale, se non altro perché nessun idioma si é imposto sugli altri.

Solo con l’affermazione di una lingua comune, di base fiorentina, nel corso del ‘500, si può parlare di letteratura italiana, e di letteratura dialettale.


8. Cause dell’affermazione del Toscano come lingua nazionale

Le cause che avrebbero condotto il Toscano alla dignità di lingua nazionale sono molteplici.


Ciò va imputato:

  • –  alla complessa vivacità della vita civile e dei gruppi intellettuali toscani tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, che fissarono la superiorità del fiorentino come lingua letteraria. Tale superiorità avrebbe continuato ad essergli riconosciuta anche in seguito, perché l’uso precoce come lingua scritta, la sistemazione grammaticale a cui fin dal suo affermarsi la lingua toscana venne sottoposta, l’avevano resa più adatta degli altri volgari, essenzialmente parlati, agli usi letterari.
  • –  alla centralità semantica del toscano rispetto agli altri volgari della penisola (Migliorini), dal momento che questo volgare risultava più vicino al modello latino. Tale maggiore vicinanza deriva dal fatto che il sostrato precedente la penetrazione del latino era l’etrusco, lingua non indoeuropea, e quindi l’interferenza col latino era minore di quanto non fosse quella delle altre lingue italiche col latino stesso. Il che garantiva una maggiore omogeneizzazione linguistica del toscano al latino colto, e quindi la sua maggiore comprensibilità per parlanti non toscani.
  • –  Infine al primato economico conquistato da Firenze tra i comuni italiani e  alla posizione geografica della Toscana al centro territorio italiano che ne sostenne l'egemonia.


É opportuno precisare in questa sede che l’esigenza di una lingua unitaria maturava, con un alto grado di consapevolezza, nell’ambito di esperienza degli intellettuali, i quali avrebbero usato, a partire dal Trecento, un volgare unitario, riconoscendo al fiorentino un primato sugli altri volgari, primato che si sarebbe protratto anche dopo la decadenza dell’egemonia economica della Firenze medicea.

C’e da osservare tuttavia –per inciso– come la linguistica storica si sarebbe fatta carico di dimostrare che l’immobilità del modello toscano come lingua letteraria, protrattasi per secoli non ha alcun fondamento: infatti, non solo che il fiorentino si era già integrato nel Trecento con elementi di provenienza settentrionale e latini, ma anche che la preminenza del presunto fiorentino come lingua letteraria non sarebbe rimasta intatta nel corso del Quattrocento; soprattutto in ambiente ferrarese e in una vasta area padana, gravitante intorno alla corte estense, si sarebbe affermata una koiné ibrida contesta di lingua letteraria toscana, con forti interferenze degli altri volgari settentrionali o con influssi latini.

Inoltre, all’omogeneità orizzontale della classe intellettuale, concorde nell’avviare un processo di unificazione linguistica intorno ad un unico modello, (Boiardo, Castiglione). non corrisponde analoga omogeneità nei vari gradi e generi di scrittura letteraria: dal piano base molto più dialettale dell’uso cancelleresco, al vertice, molto più toscanizzante, della poesia lirica.

In questa divaricazione di caratteri gli studiosi avvertono la presenza di forti spinte contrastanti che minano la consistenza della koiné proprio nel momento in cui sembrava più salda. Le spinte contrastanti sarebbero, secondo il Mengaldo una conseguenza, sul piano dello sviluppo linguistico, di contraddizioni insolute dello sviluppo politico: in altri termini la mancanza di un processo unificatore nella nostra penisola avrebbe agito da freno al processo di unificazione linguistica, che in maniera atipica, rispetto agli altri paesi europei, si sarebbe verificata su basi esclusivamente letterarie.


9. Dialetto ≈ lingua

Destinato il volgare unitario agli usi scritti di una minoranza, i dialetti rimasero confinati in ambiti locali e nell’uso parlato. Ne risultò quella distinzione, che percorre la storia degli Italiani fin quasi a oggi, tra cultura scritta –sostanzialmente unificata ma socialmente ristretta– e la ricchissima articolazione delle culture regionali dialettali, difficili da documentare e consistente, per lo più, in segni non verbali; ma soprattutto si verificò una vita autonoma del volgare unitario scritto e degli altri volgari, destinati agli usi orali e a lingua esclusiva della maggior parte della popolazione.

[per un primo elementare approccio al problema vedi allegato n° x; per la differenza tra latino e latino volgare e i rapporti tra latino e altre antiche lingue della penisola vedi anche all. n° y ; ]


10. Perché i dialetti sono sopravvissuti per tanti secoli?

L’analisi delle vicende che hanno portato il fiorentino a diventare lingua nazionale, e quindi di maggior prestigio rispetto ai dialetti, ci porta a concludere che l’italiano é un dialetto più fortunato degli altri, al quale é legato da comunanza di origini.

La situazione linguistica del nostro paese, muove quindi da una realtà plurilingue favorita dalla mancanza di unità politica, accentuata dall’isolamento delle diverse aree linguistiche. La configurazione geografica della penisola, infatti, in cui i monti costituivano vere e proprie barriere linguistiche, ha impedito per secoli contatti e interferenze.

La direzione delle strade, a sua volta, ha costituito l’unica via di comunicazione linguistica. Un’occhiata ad una cartina storica dell'Italia ci permette di constatare come la linea di demarcazione tra i principali gruppi di lingue presenti nel nostro territorio sia segnata dalla dorsale appenninica,  e i contatti seguano le arterie stradali romane.


11. E dopo l’unificazione?

Nemmeno l’unità politica del nostro paese é riuscita a rimuovere la remota stratificazione, dal momento che la lingua italiana era sconosciuta alla maggior parte degli italiani.
La situazione effettiva del nostro paese si avvicinava, dopo l’unificazione, a quella che gli studiosi chiamano di diglossia, termine coniato dal Ferguson per indicare « una situazione relativamente stabile nella quale alla realtà dei dialetti si sovrappone una varietà alta molto divergente e altamente codificata...che viene appresa in larga parte per mezzo dell’istruzione formale e viene usata per lo più per scopi formali e nella lingua scritta, ma che non é mai usata da nessun settore della comunità per la comune conversazione ».

É alla cultura delle classi dominanti, infatti, che si deve, come é stato da più parti osservato, lo stigma di inferiorità culturale (e talvolta morale) che ha spesso bollato la lingua popolare considerata come la « malerba da estirpare », e le culture popolari come devianti, errores, consuetudines non laudabiles. come é scritto per secoli negli atti dei concili e dei sinodi ecclesiastici.
La tradizione selettiva e aristocratica che dal Bembo arriva alla Crusca e al Purismo ottocentesco dà una mano, dopo l’unità, alla violenta dialettofobia e all’odio per ogni uso linguistico generale che esuli dalla lingua italiana.

Anche quando l’unificazione linguistica parve indispensabile per cementare l’unificazione politica, non poche furono le riserve avanzate da più parti a tale operazione, e per motivazioni diverse:


  • nell’Italia meridionale i borbonizzanti l’avversarono così come avevano avversato l’arrivo dei Piemontesi;
  • a Bologna il nucleo conservatore della borghesia, i "petroniani", eressero, fra se stessi e gli homines novi immigrati, proprio la barriera del vecchio dialetto
  • I Gesuiti di Civiltà Cattolica, nel 1868, disapprovavano la proposta di estendere a tutti l’uso della lingua nazionale, insistendo sulla ineluttabilità della distinzione tra "i branchi di zotici contadinelli" e i "giovinetti di civil condizione" perché "ogni studio che si mettesse a far apprendere quell’idioma (scil. l’italiano) e quella pronuncia alle classi infime del popolo, sarebbe per la massima parte e quasi totalità un lavar la testa all’asino" (De Mauro  Storia linguistica dell’Italia unita).


Gli stessi mezzi ipotizzati perché la lingua italiana diventasse la lingua degli italiani non andarono al di là della proposta della stesura di un dizionario della lingua italiana (Novo vocabolario della lingua italiana di G. B. Giorgini e E. Brogi, 1879 1897, 4 volumi) fondato non più sull’autorità degli scrittori classici, ma su quella dell’uso vivo fiorentino del modello manzoniano; in questa direzione, parimenti, si avviarono lavori di lingua destinati a svellere la malerba dialettale, cioè repertori onomastici e grammaticali che, accanto alle forme dialettali offrissero la forma corrispondente fiorentina.

Inoltre il programma di diffusione di una lingua unitaria attraverso il modello di un romanzo, o, peggio ancora, attraverso l’uso di un dizionario, era irrealizzabile per varie ragioni.
Sul terreno del dibattito culturale esso trovò opposizioni di principio non solo nei vecchi puristi, ma anche in uomini di cultura di tendenze diverse.


  • L’opposizione più significativa venne dal più grande linguista dell’Ottocento, studioso di Dialettologia e di Linguistica storica: Graziadio Isaia Ascoli. Iniziando la sua collezione dell’Archivio Glottologico Italiano (1872), dedicato soprattutto allo studio dei dialetti, egli affermava che era impossibile raggiungere coi mezzi ipotizzati l’obiettivo dell’unificazione linguistica in un paese afflitto da un « secolare cancro, chiamato retorica », che, per lunga tradizione, aveva separato i colti e il popolo.


Soltanto nuovi rapporti fra i ceti del paese, non sul piano linguistico, ma preliminarmente su quello delle strutture economiche, sociali e intellettuali, potevano estendere a più larghe cerchie l’uso della lingua nazionale e insieme rinnovare e sveltire tale uso.
L’insegnamento della lingua italiana quindi non poteva prescindere dalla situazione linguistica di partenza, per aggiungere e non per togliere. Solo attraverso un confronto continuo lingua-dialetto sarebbe stato possibile pervenire gradualmente a una situazione di bilinguismo, (di capacità cioè di comprendere e di usare entrambi i codici e di passare consapevolmente dall’uno all’altro).

Il concetto di modello linguistico di cui le tesi manzoniane sono espressione ha origini storiche remote, risalendo alla cultura alessandrina che lo applicava alla lingua letteraria. Ne parleremo in altra sede. Ci sembra invece che nelle proposte postunitarie ispirate al modello manzoniano esso veniva applicato semplicisticamente alla lingua viva.

La teoria linguistica del Manzoni, quindi, antibembesca nelle sue origini, come osserva il De Mauro, « perché nata in polemica contro le vecchie posizioni puristiche e perché volta a difendere l’uso vivo di Firenze contro coloro che volevano bloccare lo sviluppo linguistico alle formule dell’Aureo Trecento », avrebbe finito perciò per generare « un nuovo purismo e una nuova pedanteria » (ibidem).


Non mancano, é vero, autorevoli voci di dissenso come quella del Croce che osserva:

« Il linguaggio é perpetua creazione... Le sempre nuove impressioni danno luogo a mutamenti continui di suoni e di significati, ossia a nuove espressioni. Cercare la lingua modello é, dunque, cercare l’immobilità nel moto. Ciascuno parla, e deve parlare secondo gli echi che le cose destano nella sua psiche, ossia secondo le sue impressioni. Non senza ragione il più convinto sostenitore di qualsiasi soluzione del problema dell’unità della lingua (della lingua latineggiante, o trecentistica, o fiorentina, o che altro sia), allorché parla poi per comunicare i suoi pensieri e farsi intendere, prova ripugnanza ad applicare la sua teoria, perché sente che, col sostituire la parola latina o trecentesca o fiorentina a quella di diversa origine, ma che risponde alle sue impressioni, verrebbe a falsare la genuina forma della verità; da parlatore egli diverrebbe vanitoso ascoltatore di sé medesimo; da uomo serio, pedante; da sincero, istrione » (cit. in: De Mauro, Appendice 41).

L’unificazione linguistica del nostro paese sarebbe stata ancora di là da venire per molto tempo.
Fattori della stessa sarebbero stati,oltre all’emigrazione della quale abbiamo ampiamente parlato, la burocrazia, l’esercito, la diffusione della stampa quotidiana e periodica, infine i mezzi di comunicazione di massa.
La lingua italiana non sarebbe stata però il modello unitario auspicato dal Manzoni, ma un modello ampiamente variegato al suo interno.

Ritorneremo sull’argomento quando parleremo di varietà linguistica.


12. Il dialetto ha la stessa dignità della lingua: lo dice la Sociolinguistica

Secondo la Sociolinguistica il dialetto é una lingua a tutti gli effetti, e non una sottospecie della lingua nazionale o una varietà di essa.

Pertanto la cultura scritta e in gran parte orale che con esso si esprime é una cultura e non una sottocultura. Leggiamo in Berruto (La Sociolinguistica, Zanichelli):

« L’unico criterio sociolinguisticamente neutro su cui basare una corretta distinzione tra lingua e dialetto sta nella quantità relativa di persone che li adottano all’interno della comunità parlante: definiamo perciò il dialetto come uno strumento di comunicazione linguistica di ambito ed impiego demograficamente più ristretto che la lingua» [...] «Quando il dialetto é un codice diverso, un sistema linguistico autonomo e distante dalla lingua nazionale - é il caso dei dialetti italiani - allora dialetti e lingua saranno sistemi diversi anche per struttura, storia e genesi; il dialetto va in tal caso considerato una lingua a tutti gli effetti, con la stessa dignità semiologica della lingua cosiddetta nazionale ».

In quanto lingua parlata il dialetto possiede una sua grammatica, diversa da quella della lingua scritta, e modalità d’uso adatte a situazioni diverse, senza che questo ne precluda le possibilità d’impiego come lingua letteraria, come farebbe pensare l’etimologia del termine letteratura da littera = lettera dell’alfabeto (e quindi letteratura = cultura scritta).

Non basta: Nella lingua d’uso qualsiasi forma di monolinguismo sarebbe impossibile e perfino dannosa.

Leggiamo in A. Mioni, La sociolinguistica:

« La variabilità linguistica all’interno di una data comunità é non solo normale, ma addirittura necessaria per il buon funzionamento dei rapporti sociali; una lingua monolinguistica e monodialettale sarebbe non funzionale in quanto assolverebbe solo alla funzione referenziale del linguaggio, (cioè a quella di trasmettere informazioni). Cioè varrebbe unicamente in quei casi di comunicazione in cui ciò che importa é il messaggio e non, invece, come più spesso accade, anche la scelta di una varietà linguistica che fornisce preziose informazioni sulla personalità e la provenienza socioculturale del parlante, sui rapporti che egli vuole istituire col suo interlocutore, ecc. L’esperienza ci insegna invece che, in gran parte dei nostri atti comunicativi, é nettamente più importante come un determinato messaggio si enuncia, che non quale messaggio si enuncia ».

Va sottolineato inoltre che in sociolinguistica il termine bilinguismo (e bilingue é stata per lungo tempo ed é in parte la situazione italiana; l’unica situazione italiana non bilingue, ma diglotta é quella della comunità parlante toscana dove dialetto e lingua letteraria sono varietà dello stesso sistema) sottende un concetto neutro «che non esprime e non implica alcuna valutazione sul grado di competenza e di possesso, sulla frequenza d’uso e sull’ambito dei diversi sistemi linguistici in gioco, né alcuna differenziazione funzionale e/o sociale » (Berruto).

Anche dalla Sociolinguistica ci viene proposto il concetto della relatività dell’errore linguistico. La presenza quasi generalizzata del bilinguismo determina infatti il fenomeno dell’interferenza. Quando questa é tale da costituire una deviazione dalla norma del codice dominante, nasce il problema dell’errore.

Per la verità però fenomeni di interferenza sono abituali in tutti i contesti in cui due lingue vengono in contatto (basta pensare ai numerosi calchi e prestiti lessicali dalle lingue straniere e dalle varie parlate regionali). Appare pertanto residuo di mentalità conservatrice la struttura mentale che censura ogni minima devianza dalla norma. L’errore, osserva il Berruto, esiste in quanto c’é la norma. Più correttamente potremmo dire che l’errore é relativo al contesto linguistico e non al codice di appartenenza.

Oggi, comunque, dato che il problema non si pone più nei termini di un rigido conservatorismo dei decenni trascorsi, esiste tolleranza per alcune interferenze lessicali italiano-dialetto; minore o nessuna per le interferenze morfologiche, sintattiche, ortografiche.


13. Il problema degli errori a scuola

E a scuola?
Non si vuole evidentemente pervenire al rifiuto di qualsiasi norma linguistica; insegnare che gli errori linguistici sono tollerabili non significa rendere un buon servigio proprio agli svantaggiati. (Maria Luisa Altieri Biagi dice che oggi, scrivere in maniera ortograficamente non corretta é motivo sufficiente per veder cestinata la propria domanda di lavoro.) Si vuole se mai ribadire che la grammatica deve essere descrittiva e non normativa.

Gli stessi programmi orientano in tal senso quando affermano che « Le regole della grammatica non sono che uno strumento di analisi della lingua solo approssimativo e sono infatti relative alle varietà linguistiche e alle stesse esigenze espressive: sono inoltre il risultato di una evoluzione storica ». Si vuole ribadire, inoltre, che la conoscenza del modo come si esercita l’interferenza può portare a prevenire o ad evitare l’errore. É parere concorde di linguisti e pedagogisti, infatti, che il dialetto, se studiato con le tecniche giuste, é d’aiuto e non d’ostacolo all’apprendimento della lingua, in quanto aiuta a penetrare più facilmente nei meccanismi della stessa:
« La conoscenza del dialetto può diventare anziché un limite, una fonte di arricchimento » (D’Angiolini Insolera, Uso e studio della lingua).

La differenza tra le lingue e la riflessione su questa differenza « é un potente stimolo agli atti di pensiero individuali, a confronti, a differenziazioni, alla percezione della portata e dei limiti dei concetti, alla comprensione di sottili sfumature di significato- »


(W. Stern in U. Weinreich, Lingue in contatto, Boringhieri, 1974)


14. Le direttive antidialettali dei vecchi programmi

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto appaiono ingiustificate, culturalmente scorrette e perfino dannose le direttive antidialettali dei Programmi scolastici della Scuola dell’obbligo dell' ’85 per le Elementari,  precedenti i testi del ‘79 per la Scuola Media.

Le presentiamo per avere degli elementi di confronto:

• I Programmi Ermini per la Scuola Elementare (del ‘55) erano una minuziosa esemplificazione, nonostante l’arricchimento dal punto di vista metodologico e didattico, di quanto é prescritto nella legge istitutiva della stessa, che risale al 1928 e che non é stata mai abrogata, nella quale si insiste sulla necessità di « correggere i pregiudizi e le superstizioni popolari dei fanciulli », liquidando così sbrigativamente il patrimonio delle culture subalterne.
Nei programmi Ermini, per quanto attiene ai dialetti, é fatto assoluto divieto all’insegnante di rivolgere agli alunni la parola in dialetto, tranne in rarissimi casi che si potessero verificare in prima elementare. Al dialetto pertanto, come si vede, si accenna frettolosamente, come a un incidente da superare al più presto possibile, per portare gli allievi verso un monolinguismo teorico, inattuabile e inutile.

• Ancora più assurdi appaiono i Programmi della Scuola Media del ‘63 che ignorano i dialetti e suggeriscono di curare l’ortoepia.


15. Dialetto ed educazione linguistica nei nuovi programmi

I programmi di ed linguistica, si pongono nella direzione giusta. Essi hanno recepito interamente le istanze contenute nelle tesi Giscel quando propongono un’educazione volta a « sbloccare nel ragazzo di classe socialmente svantaggiata il patrimonio comunicativo ed espressivo originario ».

« La sollecitazione delle capacità linguistiche » –é detto nelle stesse–- « deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico, culturale, familiare ed ambientale dell’allievo, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra, ma al contrario per arricchire il patrimonio linguistico dell’allievo stesso attraverso aggiunte, ampliamenti che, per essere efficaci devono essere studiatamente graduali ».

Nei Programmi analogamente si suggerisce che l’insegnamento della lingua « non prescinda » da tale retroterra. Valorizzare il dialetto e la cultura extrascolastica dei ragazzi, oggi chiaramente in regresso nella nostra società, non significa voler piangere sul latte versato: significa invece non azzerare il patrimonio linguistico e culturale di origine.

L’abbandono della cultura di origine, al contrario, comporterebbe, come purtroppo accade a molti giovani, l’accettazione a livello formale di un modello di vita che esclude la realtà del loro essere umano e sociale, che tende al consumo come simbolo di status privilegiato, all’individualismo, al successo fine a sé stesso, al rifiuto acritico del passato e, ben peggio, all’accettazione acritica del nuovo.

Ma per far sì che l’opera di recupero del patrimonio culturale di origine sia progressiva e non regressiva, occorre evitare, come suggerisce il Castelli (Cultura popolare, Scuola e territorio) tutta una serie di rischi tra i quali basterà ricordare:

a) folklorismo: compiere cioè una semplice raccolta erudita di documenti curiosi e pittoreschi, senza il necessario inquadramento storicizzante e l’indispensabile valutazione critica.

b) miti ruralistici: vagheggiare cioè una mitica civiltà contadina quasi fosse una mitica età dell’oro in cui tutti erano buoni e felici, anche se poveri (etica del lavoro e del sacrificio,
mito della sanità morale del contadino e della felicita dei campi).

c) regionalismo: (micronazionalismo alla rovescia): chiudersi cioè nella esaltazione acritica dei valori culturali espressi dalla propria regione, rivendicandone magari l’autonomia rispetto
allo stato accentratore, come é nei progetti delle varie Leghe Lombarde presenti nel territorio.

d) populismo: esaltare e sopravvalutare cioè la virtù di un popolo idealizzato e immaginario, a cui si guarda con commossa partecipazione e con cui ci si vorrebbe sentimentalmente identificare.

e) nostalgia: rimpiangere cioè il buon tempo antico, sereno, frugale, armonioso, occultandone i conflitti e le tensioni pur presenti ed effettivi (rapporti di produzione iniqui, sfruttamento,
fatica, ecc.)


    

La programmazione


  • Analisi dei livelli di partenza:
         Mediante il glottokit di De Mauro


  • Obiettivi educativi:
         1. Dare al ragazzo sicurezza di sé restituendogli una identità culturale sulla quale crescere, il che              significa portarlo a non vergognarsi del proprio dialetto e della propria cultura di origine.

         2. Insegnargli che é fatto della propria storia e della storia della comunità sociale a cui appartiene             e non può disfarsene o disinteressarsene.

         3. Permettergli di avvicinarsi alla lingua italiana non in quanto strumento di una cultura                          preconfezionata, ma per esprimere la propria personalità e per avere delle cose da dire.


  •  Obiettivi didattici


          1. Facilitare l’apprendimento della lingua italiana e della lingua straniera mediante l’uso di                       tecniche contrastive volte a riscontrare le differenze a livello di pronunzia, lessico,
              morfosintassi.

          2. Far comprendere la relatività delle norme linguistiche (oltre che la loro funzione, s’intende).

          3. Far comprendere la relatività dell’errore linguistico.

    (Come esempio della funzione repressiva che la lingua italiana esercita per il dialettofono si pensi ai      tanti errori da ipercorrettismo, come il /se/ seguito dal condizionale nell’ italiano popolare di molti        meridionali, là dove in dialetto siciliano si una il congiuntivo (che è poi l’uso del periodo ipotetico        latino).

  • Obiettivi socioaffettivi


        1. Creare in classe una situazione di partenza in cui la diversa componente linguistica e culturale              non diventi condizione di emarginazione per i più svantaggiati, ma si parta da un piano di
           effettiva parità.


  • Metodologia


     L’approccio metodologico deve essere fatto con il criterio definito da U. Weinreich nel già citato        Lingue in contatto: deve essere volto a individuare le interferenze fra i due sistemi linguistici                interessati, mediante un raffronto fonologico, lessicale, morfosintattico. Il rapporto lingua-dialetto       deve essere trattato, per intenderci, come l’insegnante di francese tratta il bilinguismo italiano               - francese, non come bilinguismo zoppo (realizzantesi cioè fra due sistemi linguistici situati a diverso     livello di dignità socioculturale).

    La dosatura varierà in relazione alla situazione, ai livelli di partenza, agli obiettivi proposti.

   A titolo esemplificativo:
   a) raffronto lessicale:

  • Parole simili nelle due lingue: (Sole / suli)
  • parole molto diverse: (peri / albero)
  • Parole uguali con diverso significato (pampina [della vite] / pampina [foglia])


Può essere utile la consultazione di un vocabolario del dialetto studiato (per il siciliano quello del Traina).

b) É opportuno insistere sulle varianti fonetiche che interferiscono con l’ortografia italiana. (Nota a questo proposito lo Spitzer che i meridionali scrivono sotto l’immediato influsso
fonetico del loro dialetto più che gli italiani del Nord).

Es:
• La geminazione di consonante /g/ palatale di " colleggio ", " cuggino ", " staggionale " ecc., per cui regolarmente si scrive con la doppia. Così " subbito ", " robba ", " negozzi ".

• le diverse realizzazioni dei fonemi /t/ e /d/: (" mendre ", " condatino ", " volento ", " quanto " e
 " quando ")

• l’alternanza s/z: (" ascenzore ", " manutensione ")

• l’alternanza l/r: (" sordi "/ " soldi "; " balcone " / " barcone ".


É possibile anche evidenziare le diverse varianti fonetiche tra diversi dialetti della stessa area e tra questi e l’italiano:

es. " chinu " / " cinu "; « chiavi » / « ciavi »; « chiovu » / « ciovu » (serve anche ai cittadini per evitare la " satira al villano").

Tale analisi può spingersi fino al confronto tra italiano, dialetto, latino, lingua straniera studiata etc.

Si giungerà alla scoperta che nelle diverse lingue ci sono termini simili: si formulerà l’ipotesi: provengono dalla stessa lingua? Si passerà quindi ad un excursus storico sull’origine della lingue. Alcune parole del dialetto sono simili a quelle di lingue straniere diverse da quelle italiane? Quando si sarebbe esercitato tale influsso?


L’approccio alla morfosintassi porterà a scoperte interessanti:

  • diverso uso dei tempi:

         1. il siciliano non usa o usa poco l’imperfetto

         2. usa il presente al posto del passato o del futuro

         3. non usa il passato prossimo (ciò testimonia la maggiore vicinanza del modello linguistico                     siciliano al latino classico e giustifica la maggiore nobiltà del dialetto siciliano rispetto agli
            altri dialetti d’Italia derivati dal latino

  • semplificazione degli articoli (il siciliano ha solo due articoli per il singolare: u e a; un articolo per il plurale: /i/», valido per masch e femm.


  • semplificazione dei pronomi: ci per gli, le, loro (da cui l’interferenza con l’italiano ci / a noi


  • ridondanza pronominale: Es: A mia mi piaci
  • superlativi: il siciliano non conosce i superlativi, ma li sostituisce con gli accrescitivi o con un giro di parole. Es: biddduni, beddu comu o suli per bellissimo.

         É possibile cogliere da tale raffronto la maggiore plasticità, il maggior colore del dialetto e la              predilezione per i termini concreti, che è tipico del linguaggio parlato

  • mancanza di avverbi in -mente sostituiti con gli aggettivi (Es: duci duci per dolcemente.
  • pronomi relativi: il siciliano - conosce solo il che soggetto e oggetto e non le forme oblique; donde le difficoltà per i dialettofoni;
  • uso del /che/ polivalente (Es. laviti i manu ca l’hai lurdi).
  • concordanze analogiche: Es. cchiù megghiu.




  • Contenuti culturali


Saranno scelti di volta in volta attingendo, oltre che ai testi letterari (Meli, Buttitta etc: anche agli usi vivi della lingua, attingendo dai documenti più vicini all’esperienza del ragazzo, estendendo sia via la ricerca all’ambiente locale, fornendo agli allievi le necessarie indicazioni di tipo metodologico per una corretta rilevazione e trascrizione di proverbi, filastrocche, ricette di cucina e altri testi dialettali appartenenti alla ricca tradizione delle classi subalterne. Ogni documento verrà trascritto o commentato su schede in modo da consentire di agevolare il successivo lavoro di analisi, confronto, ripartizione per temi. La trascrizione e la difficoltà a tradurre in lettere dell’alfabeto i fonemi del siciliano può costituire lo spunto per passare ad una riflessione sui fonemi in generale.

Interessante potrebbe essere lo studio del lessico per pervenire a riflessioni sulle vicende storiche che ne hanno determinato il progressivo arricchimento

Per altri spunti vedi schede allegate


• Verifica:

3. Può essere somministrato lo stesso glottokit iniziale che consente di verificare se gli obiettivi educativi sono stati raggiunti

4. Per altri obiettivi di tipo didattico si predisporranno esercizi di verifica ad hoc



  • Considerazioni finali


Non dimenticare che la riflessione sul dialetto é una tappa, fondamentale, ma transitoria. Essa può essere ripresa a diversi livelli, in modo autonomo, parlando di varietà geografiche, a proposito di storia della lingua italiana ecc. L’obiettivo fondamentale resta sempre lo sviluppo di un repertorio linguistico in cui ci fossero dialetto, lingua e infinite varietà della lingua.





Esercitazione:

I programmi della Scuola Media suggeriscono la necessità di tener conto, nell’insegnamento della lingua, dell’incidenza che i dialetti hanno nella competenza linguistica degli allievi. Discuta il candidato i presupposti di ordine culturale e teorico da cui discende l’indicazione suddetta e indichi obiettivi, percorsi, metodi e contenuti, con esemplificazioni di tipo linguistico di un ipotetico intervento didattico.


Ipotesi di svolgimento


Traccia: Il testo si articola in tre parti:

1) indicazioni programmatiche
2) presupposti culturali e teorici
3) attività di programmazione


Il testo, di tipo argomentativo si comporrà di tre nuclei:


I° NUCLEO Premessa

Presupposti culturali e didattici

Analisi del testo dei programmi e della duplice prospettiva dalla quale muove il riferimento al dialetto:

1. Nel quadro della competenza sociolinguistica, cioè delle varietà linguistiche geograficamente presenti nel nostro territorio. Il dialetto non è una varietà, ma una lingua; forse è in regresso, ma interferisce sulle varietà d’uso degli allievi. I programmi suggeriscono quindi un intervento di tipo preventivo che autorizza l’uso del dialetto per intervenire sull’errore.

2. Nel quadro della riflessione sulla lingua: concetto del divenire storico delle lingue; la lingua riflette la storia, la cultura, la civiltà di un popolo.

Queste due posizioni sono giustificate da acquisizioni culturali, le prime di ordine teorico (ricavate soprattutto dalla linguistica storica: fenomeni usuali di interferenza di due lingue in contatto), le seconde di ordine culturale (ricavate dagli studi di storia della lingua e della sociolinguistica: origine storica dei dialetti; cause della crescente divaricazione lingua dialetto; rapporto lingua dialetto nella storia linguistica degli italiani e pregiudizi di ordine culturale)


II° NUCLEO Deduzioni logiche della premessa

I programmi implicitamente costituiscono un’indicazione del superamento di tale pregiudizio e appare culturalmente acquisito il concetto della dignità del dialetto ...
Stereotipi potrebbero però esistere...
Il riferimento si impone quindi per ragioni di ordine educativo oltre che didattico.


III° NUCLEO Proposta operativa

In relazione ai livelli di partenza e alla realtà socio culturale e linguistica in cui si opera programmare l’attività. Non dimenticare comunque l’obiettivo prioritario dell’ed. all’uso della lingua, a cui il riferimento ai dialetti va subordinato.

Nella programmazione articolare in maniera sintetica le varie fasi, senza trascurare l’analisi dei livelli di partenza e le modalità di verifica. Indicare obiettivi generali (intermedi) non operazionalizzati.

Per le esemplificazioni reperire un testo scolastico. Un utile spunto può riguardare il rapporto del dialetto col latino, comune a molte realtà linguistiche della penisola, ma anche quello del dialetto con le lingue dei popoli con cui le diverse realtà geografiche sono venute a contatto nel corso della loro storia.


Importante ! ! !


  1. Non scopiazzare: É pericoloso; non ci aiuta a costruire un testo coerente.
  2. Curare la coesione testuale.


P. S. 
Testo scritto da Maria Mignosa nel 1990,  in vista sella  preparazione al Concorso a Cattedra. 



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